La preziosa testimonianza di VITTORIA, medico geriatra a Casa Emmaus

Mi chiamo Vittoria Veglia e sono un medico. Nata nel basso Lazio, dopo la laurea in Medicina conseguita all’Università di Roma “La Sapienza ” nel 1999, mi sono trasferita a Trieste nel lontano 2000, per frequentare la scuola di Specializzazione in Geriatria e Gerontologia.
L’amore e la tenerezza nei confronti del mondo degli Anziani nasce molto lontano, in seno alla mia famiglia, avendo avuto dalla vita l’opportunità di conoscere e vivere con le mie due nonne, che ha certamente determinato le mie scelte professionali.
Negli anni lavorativi ho avuto il privilegio di accompagnare tante persone nell’ultimo viaggio terreno, cogliendo l’incredibile ricchezza che questo momento può offrire agli operatori sanitari.
Questo aspetto del mio lavoro mi ha spinto a frequentare nel 2018 il Master in Cure Palliative e Terapia del dolore presso l’Università di Trieste con tesi dal titolo “Il pallium della parola, quando mancano le parole: la narrazione come strumento di cure palliative nella demenza end-stage, per la famiglia e l’equipe di cura”. Quella del Master è stata un’incredibile esperienza di formazione e crescita umana e professionale.
Dopo 14 anni di lavoro in RSA come direttore sanitario, ho assunto dal 2018 la direzione di “Casa Emmaus” residenza per non autosufficienti di terzo livello, che ospita 122 persone.
Al fine di consentire una risposta il più coerente possibile con i bisogni degli ospiti, la struttura è suddivisa in 4 nuclei differenziati in base alla tipologia di utenza (nucleo 0 dedicato a persone con disturbi cognitivi da lievi a moderati, associati a compromissione delle abilità funzionali da moderate a severe; nucleo 1 dedicato a persone con disturbi cognitivi da moderati a severi, associati a disturbi comportamentali; nucleo 2 che ospita persone affette da demenza evoluta e nella fase terminale di malattia; nucleo 3 in cui vengono accolte persone con prevalenti bisogni sanitari ad es. pazienti in nutrizione artificiale, dialisi peritoneale, portatori di tracheostomia, pazienti in fase di terminalità per malattia oncologica e non, oppure persone che a seguito di eventi acuti, hanno perso le capacità funzionali).
La nostra struttura costituisce, per la stragrande maggioranza dei casi, l’ultima dimora delle persone che vi fanno ingresso.
L’avanzare dell’età dei nostri ospiti, la presenza di comorbidità ed il decorso clinico variabile da individuo a individuo, richiedono un approccio metodologico del tutto differente, rispetto alle altre branche della medicina, fondato non sul singolo sintomo o sulla singola malattia ma che, tenendo conto di una valutazione globale, miri al conseguimento di una buona qualità di vita ed un adeguato accompagnamento verso un dignitoso fine vita.
Tra le patologie maggiormente rappresentate dai nostri ospiti, campeggia la demenza, dagli stadi inziali, fino alla terminalità.
La demenza, fin dalla diagnosi, porta con sé un vero e proprio stigma sociale.
Pur comportando un notevole costo in termini di oneri economici, impiego di risorse umane e tecnologiche, la demenza è una patologia a cui la società civile non conferisce la meritata dignità al pari di altre a carattere cronico-degenerativo end-stage, con minime possibilità terapeutiche e con prognosi ugualmente infausta, ma che necessitano di una presa in carico globale.
Assistere una persona affetta da demenza rappresenta una vera e propria sfida, per la famiglia e l’equipe di cura, trattandosi di una patologia che può portare ad un vero e proprio sovvertimento delle dinamiche relazionali all’interno del nucleo familiare.
Proprio per questo motivo, risulta assolutamente indispensabile una presa in carico dell’unità di cura “anziano-famiglia”, secondo un approccio metodologico, che miri al conseguimento dell’alleanza terapeutica tra i membri dell’equipe multidisciplinare, dove il “curare” faccia spazio al più lungimirante e ben più edificante “prendersi cura”.
L’esperienza maturata durante questa emergenza da Coronavirus mi ha segnata intimamente per diversi motivi.
Nella prima fase, in cui il virus iniziava a diffondersi in Italia, prevaleva in me una sorta di “attivismo” nel tentativo di difendere “con le unghie e con i denti” i nostri ospiti, seppur con momenti di disperazione e frustrazione per la vastità del problema che ci si poneva sinistramente dinanzi.
Successivamente, il virus mi ha colpita in prima persona, impedendomi di continuare a lottare con i miei colleghi ingenerando un senso di colpa ed un sentimento di vero e proprio smarrimento rispetto al futuro, soprattutto nelle prime settimane di malattia.
Ma ciò che mi ha profondamente turbata ed addolorata è il fatto che questo “mostro invisibile” abbia colpito sì i corpi, ma principalmente le relazioni, il nostro modo di comunicare.
Fin dall’inizio dell’emergenza, al fine di contenere il rischio di contagio, abbiamo deciso di chiudere alle visite dei familiari, allontanando i nostri ospiti dall’affetto dei propri cari. Questa è stata una scelta dolorosissima, soprattutto se pensiamo a quanto sia importate che l’anziano mantenga i contatti con i propri affetti, lo stesso dicasi per i familiari, spesso coetanei degli stessi ospiti.
Allora, abbiamo sfruttato la tecnologia a vantaggio di un nuovo modo di comunicare, attraverso delle videochiamate, con cui almeno inizialmente gli ospiti, soprattutto affetti da demenza, hanno fatto fatica a familiarizzare.
Un nuovo modo di comunicare abbiamo dovuto imparare anche noi operatori, in quanto i DPI limitano le possibilità di comunicare e di mantenere la relazione, affinchè quei “Marziani incappucciati”, come ci ha definiti qualche anziano, diventassero figure amiche, riconoscibili dagli occhi “sorridenti” e dal timbro di voce affettuoso.
Concludo questo mio piccolissimo contributo con una frase di Elisabeth Kubler Ross, figura tanto cara al meraviglioso mondo delle Cure Palliative “Senza usare la testa, il cuore e l’anima non si può aiutare nessuno. Questo mi hanno insegnato i cosiddetti malati inguaribili”.

Con profonda stima per il prezioso lavoro svolto dall’Associazione Cure Palliative “Mirko Spacapan – Amore per sempre ONLUS, vi saluto cordialmente,
Vittoria

La donazione alla residenza per non autosufficienti di terzo livello “Casa Emmaus” da parte dell’Associazione Cure Palliative “Mirko Spacapan – Amore per sempre ONLUS “è constata di n°700 filtranti facciali tipo FFP2 e n° 555 tute protettive, la cui fornitura è terminata il giorno 12/05/20.
In “Casa Emmaus”, giornalmente operano circa 60 persone di diverso profilo professionale sanitario-assistenziale (medici di medicina generale, infermieri, operatori di assistenza, animatori, educatori professionali, fisioterapisti, psicologa) che prestano assistenza ad anziani fragili che presentano un grado di autosufficienza da moderatamente, a severamente compromesso, affetti da polipatologie, alcuni di questi in fase di terminalità, per malattia oncologica, o a causa di malattie cronico-denegerative, il cui paradigma è certamente rappresentato dalla demenza evoluta.
Il prezioso contributo dell’Associazione ha consentito pertanto di provvedere al fabbisogno di DPI, per circa dieci giorni.

ECCO le 555 TUTE PROTETTIVE

e le 700 mascherine FFP2

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